"Nel deserto non si improvvisa", quante volte ho letto questa frase nelle guide turistiche e pensavo “Ma che sarà mai! Improvviso sempre quando sono in viaggio, e nel deserto no?”
Fino all'anno scorso la pensavo così, poi, quando mi sono ritrovata sola alle porte del Sahara tunisino con un bambino di un anno in braccio e un altro di sette per mano, ho cambiato idea.
La nostra improvvisata guida ha avuto soltanto il merito di portarci in una zona assolutamente non turistica dove avremo dovuto fare un giro col dromedario fino a raggiungere un'oasi.
Appena arrivati al campo beduino ci rendiamo conto di avere con noi pochissima acqua, perciò mio marito e la guida sono ripartiti in macchina per andare al paese vicino, mentre io e i bambini siamo rimasti con il cammelliere. Dopo i primi venti minuti ho cominciato a preoccuparmi, e scoprire che il cellulare non aveva segnale di certo non mi ha tranquillizzato. Intorno, oltre al cammelliere, ai sui animali e a noi, c'è solo un gruppo di donne intente a spippolare datteri dalle fronde di una palma. Passano altri dieci minuti e chiedo in prestito il cellulare del cammelliere, ma lo stesso non riesco a parlare con mio marito, né con la guida.
Mi guardo intorno, ormai è quasi buio, le donne dei datteri mi invitano a sedermi accanto a loro, almeno i miei bambini si distraggono un po', ma io continuo ad immaginare gli scenari peggiori: tipo Graziano derubato e picchiato, scaricato dalla macchina e lasciato chissà dove nel deserto. Non è un bel momento. Realizzo che nel posto dove mi trovo il fatto che abbia del denaro con me non è poi così importante: cosa puoi comprare dove non c'è niente da vendere? Senz'altro avrei potuto contare sull'ospitalità beduina, mi sarei messa anche ad implorare per assicurare un pasto e un riparo per la notte ai miei figli.
Ad un tratto ecco due fari in lontananza farsi sempre più vicini: sono loro, erano finiti fuori pista e si erano insabbiati, quindi hanno dovuto raggiungere a piedi il villaggio per chiedere aiuto. Stavolta è andata bene, ma un rischio così non voglio correrlo mai più.
Per questo, l'anno dopo in Marocco, abbiamo scelto un tour operator di Marrakesh con tanto di guide esperte che ci hanno portato alla scoperta delle meraviglie dell'Erg Chebbi. Tramite il nostro albergo, il Riad Hamza e il fido Muhammad, abbiamo scelto il tour che prevede due notti fuori, di cui una da trascorrere in una tenda beduina nel mezzo del deserto, raggiunta rigorosamente a dorso di dromedario. Soprattutto abbiamo preferito organizzare con il nostro albergo perché così buona parte dei bagagli è rimasta lì, con l’assicurazione che avremmo ritrovato la camera al nostro ritorno ad aspettarci. Comodità non da poco quando si viaggia con i bambini. Certo, questo è costato un’estenuante contrattazione, com’è d’obbligo da queste parti, ma sempre col sorriso sulle labbra e la consapevolezza che non si tratta di vita o morte.
La stessa escursione però la potete organizzare con una qualunque altra agenzia del posto, ma è sempre meglio chiedere un parere ad altri viaggiatori, o leggere qualche commento in rete.
La partenza è prevista all’alba e un ragazzo dell’agenzia viene a prenderci in albergo per portarci sul luogo dove il minibus ci aspettava. Oltre al nostro, diversi pulmini bianchi si incontrano nel piazzale appena fuori la Djemaa el-Fna, la mitica piazza dove si avvicendano turisti, bancarelle, cibo, serpenti, scimmie, personaggi. I miei bambini non sembrano aver risentito troppo dell’alzataccia, e nemmeno dell’attesa di oltre un’ora prima di riuscire a partire.
All’inizio la strada scorre tranquilla; poi cominciano le montagne dell’Atlante, le curve e un po’ di insofferenza soprattutto del piccolo di casa che ha fatto colazione con il latte.
Passato il momento di panico la strada ridiventa dolce, il valico ormai ha lasciato il posto all’immenso panorama di montagne che circondano l’orizzonte. Siamo alti, lo dimostrano i pali ai lati della strada piazzati per misurare la neve. Sì perché in Marocco nevica e pure parecchio; in montagna certo, ma è una cosa che non consideri mentre stai andando a vedere il deserto.
La prima tappa la facciamo ad Aït Benhaddou, città fortificata lungo la rotta carovaniera tra Marrakesh e il deserto del Sahara, per ammirare la kasbah che ha fatto da scenografia a film come Lawrence d’Arabia, Gesù di Nazareth, Il gioiello del Nilo e il Gladiatore, giusto per citare i più famosi. Il nostro pulmino si ferma al di là del letto asciutto dell’Oued Ounilla in tarda mattinata; la kasbah di mattoni di fango rossi è lì davanti a noi e pare disabitata.
In realtà qualche abitante c’è ancora, e saranno proprio loro ad aprirvi le porte di casa. Dietro il pagamento di una mancia di circa 10 Dirham infatti potrete visitare questo patrimonio dell’Unesco e vedere come si svolge ancora la vita nella zona.
Salendo le scale che conducono all’agadir, il granaio del paese, passerete stradine tortuose, una moltitudine di torri che incorniciano abitazioni e cortili con mura spesse decine di centimetri per proteggersi dal caldo. Il passeggino fate come noi: lasciatelo a Marrakesh!
La fatica di portare fino in cima due bambini sarà ripagata dalla splendida vista delle palmeraie e dell’hammada, il deserto pietroso, e quando tornerete giù per mangiare non faranno storie a trangugiare il couscous, con vostro immenso sollievo dal momento che non c’è altro.
Dopo pranzo ripartiamo alla volta di Ouarzazate, città avamposto delle spedizioni nel deserto, dove non solo è possibile fare rifornimento in supermercati pieni zeppi di ogni bene, ma anche ammirare gli studi cinematografici che le hanno valso il soprannome di Ouallywood. Da queste parti vengono girati tantissimi film con ambientazioni che vanno dall’antica Roma al Tibet. Ci fanno anche una tappa nel film Marrakesh Express di Salvatores, ma lo scenario è completamente trasformato. La città moderna è nata negli anni ‘20 come presidio francese, e ultimamente ha conosciuto nuovo splendore perché il re del Marocco Mohammed VI ha preso in simpatia il posto e le sue sempre più frequenti visite hanno dato una svecchiata all’insieme e rimesso a posto le strade.
Ci fermiamo nell’ampia piazza pedonale di fronte alla kasbah che ospita un museo dedicato al cinema con scenografie e materiale di scena usati nei più disparati film. Siamo in agosto e perciò fa molto caldo, ma nel periodo invernale questa città è sferzata dai venti gelidi che scendono dall’Alto Atlante.
La prossima destinazione di questo pulmino con a bordo un eccellente autista, un ragazzo di Bologna, due francesi, un nepalese, un’americana, un’austriaca, una coppia di svizzeri e noi, sarà la Valle del Drâa.
Attraverso gole un tempo ritenute invalicabili, i popoli del Marocco che si sono succeduti in questa zona impervia hanno saputo sfruttare le acque che scendono dalle montagne per irrigare i campi, facendo crescere frutta e verdura e costruendo case di mattoni di fango per viverci.
Facciamo diverse soste per goderci il panorama fino a scendere sul fondo della valle; il viaggio però non può fermarsi e riprendiamo subito in direzione della Valle del Dadès dove avremo passato la notte.
Sul fondo di una gola, Le Vieux Chateaux du Dadès ci accoglie tra il cinguettio degli uccelli e il rumore del fiume che scorre più in basso. L’albergo è molto suggestivo, ma la cena è sempre la solita tajine di couscous, pollo e verdure. E dopo aver tradotto rapa in tutte le lingue possibili, ognuno prende destinazioni diverse, compresi noi che ci fermiamo sulla terrazza perché mio figlio ha conosciuto un bambino di nome Amir e non vuole proprio saperne di smettere di giocare con lui. Amir è in compagnia del papà marocchino, della mamma italiana e di un tuareg. Figurati se mi lascio scappare un’occasione così! Siedo al tavolo con mamma e tuareg per chiacchierare un po’, mentre i bambini continuano a inseguirsi per tutta la hall, fino a scendere al piano di sotto dove il fiume scorre a pochi passi e - sarà per il castello, ma è più probabile che sia per il travolgente babbo di Amir - vedono fantasmi ovunque.
Il secondo giorno della nostra escursione comincia con una visita al villaggio di Aït Oudinar, passando prima per gli orti sul fondo della Gola del Todra, dove gli abitanti del posto coltivano da secoli sfruttando le acque dell’omonimo fiume.
Grazie a un sistema di dighe che dirige l’acqua tutta intorno ai campi, questi vengono irrigati a turno alzando e abbassando gli argini. Attraversiamo ruscelli passando su ponti di legno, ma si potrebbe tranquillamente camminare nell’acqua, come presto sperimentano i bambini.
Dopo gli orti arriviamo al villaggio vero e proprio; anche qui case di mattoni di fango miste a quelle di cemento.
Visitiamo una cooperativa di donne che tessono tappeti e assistiamo alla preparazione del filato e alla tessitura vera e propria. Possiamo provare i vari procedimenti e i bambini si divertono un sacco, anche perché in Marocco i piccoli viaggiatori sono sempre e ovunque i benvenuti.
Mentre lasciamo il laboratorio con in bocca ancora il sapore del tè alla menta che ci è stato offerto, la donna che ci ha fatto vedere come lavorano la lana si avvicina e mi chiede un cachet perché ha mal di denti. Avrà intuito che, viaggiando con bambini, potessi avere medicinali con me. Ha indovinato, e felice di poterla aiutare gliene lascio due. Mi ricordo anche di aver letto sulla guida che da queste parti non è inusuale che vi chiedano medicine o creme per bambini, che patiscono parecchio la disidratazione dovuta al sole. Perciò se doveste passare di qui, sapete cosa fare...
Il giro prosegue a piedi in direzione della sorgente sotterranea che regala frutta e verdura alla zona, mentre le alte pareti della gola svettano sopra le nostre teste. Comincia a fare un po’ caldo nel canyon scavato dal fiume Todra, alimentato da un ghiacciaio che ne aumenta la portata soltanto nel periodo invernale. Adesso è ridotto a un piccolo torrente, ma la sua acqua è freschissima. Intorno a noi gruppi di turisti misti a gente del posto, asinelli con in groppa il contadino, e il più grande gregge di pecore nere che abbia mai visto in vita mia.
La tentazione di bere quell’acqua così fresca che sgorga da sotto i nostri piedi è fortissima; ci ripenso quando Graziano mi fa notare che le pecore hanno avuto la mia stessa idea!
Dopo pranzo rimontiamo tutti sul nostro pulmino, la prossima fermata sarà il deserto. Altri chilometri su e giù per le montagne dell’Atlante, finché il paesaggio intorno a noi cambia, e l’orizzonte si appiattisce. Ultima sosta per fare acquisti e poi via lungo la striscia di asfalto che sembra non portare da nessuna parte.
Ripenso alla prima volta che ho visto il deserto, una decina di anni fa: ero nel centro dell’Australia, quando ho provato quella sensazione di inquietudine e mistero che solo spazi così sconfinati riescono a trasmettermi. Adesso però un’altra paura si sta facendo largo dentro di me. Quella che qualcosa possa andare storto, soprattutto per i bambini. Ormai però è fatta, ci siamo.
Nel tardo pomeriggio raggiungiamo l’ultimo centro abitato nei pressi di Merzouga, prima del grande nulla di sabbia e dune. Facciamo rifornimento d’acqua, tipo sei bottiglie grandi (il ricordo dell’anno scorso è ancora troppo vivo!), latte a lunga conservazione per i bambini, qualche biscotto e via. Stavolta non ci sono più scuse: è deserto.
Un altro po’ di strada ed eccoci finalmente alle porte dell’Erg Chebbi, ovvero il deserto con dune alte anche 160 metri formate dalla sabbia sahariana portata dal vento. La leggenda narra che una ricca famiglia del posto non offrì ospitalità ad una povera donna e al suo bambino, per questo Allah si arrabbiò e seppellì tutta la famiglia sotto un cumulo di sabbia, oggi divenuto l’Erg Chebbi.
Mentre aspettiamo che preparino i dromedari, assistiamo alle sabbiature che la gente del posto fa soprattutto in questa stagione per combattere i reumatismi. Anche i miei figli ne approfittano, e cominciano a rotolarsi giù dalle piccole dune che ci sono nei paraggi: tanto prima o poi doveva accadere!
Per raggiungere l’accampamento credevamo di poter tenere i bambini con noi, sui nostri animali. Invece il cammelliere dà un dromedario tutto per il grande, mentre il piccoletto viaggerà col babbo. Sono un po’ preoccupata ma non ha paura, anzi: un dromedario tutto per lui è una vera pacchia.
In cordata partiamo in direzione del bivacco berbero, che in linea d’aria non sarebbe lontano, ma che in sella agli animali che salgono e scendono le dune è distante un’ora di cammino. Le rare volte che siamo in piano non si sta male, come anche nelle salite. Il nostro fondo schiena sarà messo a dura prova nelle discese!
Durante la traversata ammiriamo il tramonto e le dune che cambiano colore passando dal giallo acceso a tutte le tonalità del rosso. Ma la cosa che vi colpirà di più sarà il silenzio, così intenso che vi sembrerà di avere le orecchie tappate. Questo grazie anche alla riluttanza della gente del posto verso i quad e i fuoristrada, troppo rumorosi e che provocano vibrazioni che appiattiscono le dune. E affinché questo paradiso resti così com’è, vi rivolgo la preghiera di non noleggiare mai questi mezzi per fare escursioni. A meno che non vorrete attraversare un ampio tratto di deserto, non avrete alcun bisogno di un fuoristrada: i dromedari da soli se la cavano alla grande!
Arriviamo alle tende che ormai è quasi buio, e a lume di candela ci viene servita una cena a base di – udite udite – tajine di couscous, pollo e verdure! Seduti su stuoie adagiate per terra, circondate dalle nostre tende, consumiamo la cena parlando molto piano, per non guastare l’atmosfera di pace che abbiamo intorno.
A noi che siamo una famiglia viene data la tenda più grande, arredata con materassini posati su tappeti. Mettiamo il pigiama ai bimbi che si sono divertiti un sacco a lavarsi i denti al chiaro di luna. Già, la luna, che con la sua luce ci inibisce quella delle stelle, almeno finché non tramonta dietro a una duna; allora lo spettacolo è maestoso.
I nostri figli dormono profondamente; l’indomani mattina la sveglia sarà prestissimo, per rimontare in sella e tornare al villaggio mentre l’alba riaccenderà le dune. Poi si torna a Marrakesh tutta una tirata: 600 chilometri di su e giù per l’Atlante per 11 ore, minuto più minuto meno.
Ci sdraiamo fuori dalla nostra tenda, con intorno anche tutti gli altri compagni di viaggio: sembra proprio che nessuno abbia intenzione di ritirarsi. Siamo tutti in silenzio estasiati dal cielo, presi a contemplare le stelle, quando da una tenda si sente scoreggiare sonoramente.
Scoppiamo a ridere come non facevamo più da tempo!
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