Il Castello di Sammezzano: un capolavoro in stile moresco nel cuore della Toscana.
Doveva essere così che Ferdinando Panciatichi Ximenes d'Aragona immaginava le feste che avrebbe dato al Castello di Sammezzano, una volta realizzato il suo Sogno d'Oriente. Pensava all'alta società fiorentina incantata davanti ai tantissimi stucchi colorati o candidamente bianchi che procedono dalle pareti fino ai soffitti. La stessa élite da cui si distaccò nel tempo, che invece fece il Castello luogo aperto ad alcuni, selezionati, visitatori.
A distanza di oltre un secolo, ancora al Castello accedono pochi fortunati, che riescono a prenotarsi un posto in occasione delle visite curate dal Comitato FPXA.
E anch'io, grazie al Fotoclub il Bacchino, ho potuto vedere questo posto così intrigante e di cui, non mi nascondo a dire, non conoscevo l'esistenza fino a qualche mese fa.
Negli anni che seguirono l'unificazione d'Italia, nel periodo rinascimentale di Firenze Capitale, sulle colline toscane un uomo appassionato ha dedicato un'esistenza intera per inseguire un sogno. Sapevo sin dall'inizio che non avrei visitato solo un castello di magnifiche stanze - di quelli ormai noi italiani abbiamo pieni gli occhi - ma avrei avuto davanti qualcosa di unico in questo paese che mi avrebbe riportato nella mia amatissima Asia. Sapevo che il castello andava interpretato secondo il genio del suo ideatore e realizzatore Ferdinando che, dal 1840 e per oltre 40 anni, trasformò una villa seicentesca come tante in un capolavoro. La cosa più incredibile però, resta il fatto che Ferdinando non aveva mai viaggiato in oriente e neanche in Spagna, e che tutto l'estro e l'ispirazione che ha messi nella sua opera, derivano dai libri di architettura e letteratura orientalista che possedeva. Fonde stili indiani, spagnoli e medio orientali rendendo però difficile il catalogare le stanze come di assoluta ispirazione a un paese piuttosto che un altro. Usa i colori come nessuno ha mai fatto prima, non solo in Italia, ma anche in Asia.
Al di là del gusto personale, sul fatto che questo sia un lascito molto importante e da preservare non c'è alcun dubbio. Come è vero che al di là del grande impatto che il visitatore riceve attraversando il parco di sequoie secolari e cedri che conduce al Castello, dell'effetto grandioso di trovarselo davanti, della luce magistralmente studiata e dell'ebrezza di trovarsi immersi in tanti decori, la visita al Castello è la visita nell'intimo di un grande uomo che ha vissuto deluso la sua epoca, capace di comprendere quelle verità assolute che fanno del suo pensiero ancora oggi qualcosa di estremamente attuale.
Salgo la scala che conduce al primo piano del Castello più con l'emozione che con le gambe. La nostra guida, che definire appassionata è riduttivo, ci apre la porta della sala da dove, oggi come un tempo, inizia la visita. La Sala d'Ingresso è un tripudio di decori e colori che stordisce. Lungo il perimetro, un ballatoio circonda la parte alta delle pareti: è da lì che Ferdinando faceva suonare i musicisti per riempire l'aria di musica. Ed è da questa stanza che Ferdinando chiede ai suoi visitatori qualcosa in più, un'attenzione che deve andare oltre l'esperienza visiva. Due scritte sovrastano le porte decorate “Non plus ultra”, non si può andare oltre perché non c'è niente di più bello. Questo primo messaggio arriva chiaro, Ferdinando non era un tipo modesto e ha piena coscienza dello splendore che ha creato.
Tuttavia non è il solo messaggio celato tra queste mura, ce n'è un altro che solo il visitatore più attento riesce a intercettare. Una scritta in caratteri gotici che sembra più un ornamento, incornicia una delle porte moresche; facendo attenzione però, si legge “Sempre, l'uom non volgare e non infame o scavalcato o inutile si spense”, parafrasando dice che per avere successo nella vita bisogna essere volgari e infami, tutto ciò che lui non è mai voluto essere.
La guida apre la porta e regala un colpo d'occhio bellissimo sulle sale che si susseguono rischiarate dalla luce del sole che filtra dalle finestre, alcune di vetri colorati. Si passa così alla Sala delle Stelle, decorata da pareti di stucchi bianchi e vetri colorati incastonati nella parte superiore che regalano giochi di luce. La volta è una grande stella bianca a otto punte ornata da piccole stelle di vetro di colore azzurro. Ancora delle scritte adornano le pareti; in una si legge “Non Sine Labore”, “Virtus in Medio” e “Nos Contra Todos – Todos Contra Nos”, un motto spagnolo che spinge a chiedersi chi mai saranno stati i noi e i tutti.
Questa stanza è bella, ma niente se paragonata a quella a cui introduce.
Entro così nella Sala da Ballo - chissà se qualcuno vi ha mai ballato - di un bianco immacolato che decora le pareti di forma ottagonale e un soffitto a cupola. Anche qui un ballatoio gira sotto la cupola per ospitare i musicisti e regalare così agli ospiti un'acustica perfetta.
La sala richiama l'Alhambra di Granada, ma anche le tradizioni islamiche; come sempre Ferdinando ha saputo ispirarsi all'oriente inventando uno stile che in fondo è tutto suo.
Un pentagramma circonda uno specchio posto sopra una delle porte, è un verso dell'Ernani di Verdi, che è nato nel 1813 come Ferdinando, si legge sotto le note “Fiero sangue d'Aragona nelle vene a me trascorre”.
Passando sotto il pentagramma si arriva al Corridoio delle Stalattiti e anche qui le somiglianze con l'Alhambra sono evidenti. Arabeschi e azulejos ricoprono le pareti fino ai soffitti, da cui pare che scendano delle stalattiti.
La galleria è formata da tre ambienti rettangolari contigui e lungo il corridoio c'è una vetrata colorata che doveva avere nel mezzo un triangolo con un occhio. Federico Panciatichi ha frequentato nonché ricevuto appoggio politico da alcuni massoni del tempo. Pare che lui non si sia mai iscritto, ma in fondo che importa?
La vetrata è comunque degna di nota per una scritta che scorre lungo la cornice esterna: “O voi c'avete gl'intelletti sani, mirate la dottrina che s'asconde sotto 'i velame de li segni strani”, frase che sembra di Dante, se non fosse che lui scrisse “versi strani”, ma che in realtà è l'invito puro e semplice di Ferdinando a guardare oltre le apparenze.
Se questo vi sembra attuale, aspettate di leggere cosa c'è scritto in latino all'interno di una nicchia: “Pudet dicere sed verum est publicani scorta [...]” che tradotto è “Mi vergogno a dirlo ma è vero, esattori, prostitute, ladri e sensali tengono in pugno l'Italia e la divorano. Ma non di questo mi dolgo ma del fatto che ci siamo meritati i nostri mali”. Poi c'è una data: 1870, lascio a voi le riflessioni del caso...
Il giro prosegue nell'Ottagono degli Specchi, altra stanza di chiara ispirazione spagnola con la differenza che Ferdinando inserisce negli stucchi dei piccoli specchi che danno effetti di luce sempre nuovi.
Ripassando ancora lungo il Corridoio delle Stalattiti, ecco che si raggiunge l'Ottagono Dorato, una sala finemente decorata con stucchi dorati e una grata che si ispira a quella presente sempre all'Alhambra. La particolarità di questa grata posizionata al soffitto e che ben si fonde con i decori della volta, è che in realtà serviva ad aspirare il fumo; la stanza infatti è anche detta Sala da Fumare.
Si prosegue lungo il Corridoio Bianco, che non è solo un collegamento fisico tra le stanze, ma anche l'occasione per Ferdinando di riprendere il filo del discorso con i suoi visitatori. Tanto per cominciare fa un inciso “Mi spezzo ma non mi piego”, ripetuto per ben due volte. Poi nel mezzo del percorso ecco che appare un'altra scritta “Non ciò che il volgo suol, ma ciò che indice un mio segreto demone trascelgo e richiami di pietra ho per cornice”, un modo per confessare i turbamenti e l'insofferenza per il suo tempo espressi come decorazioni sulle cornici e, non contento di quanto già mi ha incuriosito, prosegue con “Nodum solve”, un chiaro invito a seguire ancora il suo pensiero.
Di nuovo col naso all'insù questa volta ammiro la volta della Sala dei Gigli, ornata di piccoli e tondi vetri colorati che lasciano passare la luce e preparano i visitatori a quella che sarà la stanza più spettacolare del Castello, la più fotografata e di indubbia ispirazione indiana, insomma la mia!
La bellezza della Sala dei Pavoni mi lascia senza fiato; per un attimo devo mettere a fuoco, è come se il cervello non riuscisse a districarsi in mezzo a tanti stimoli.
File di azulejos partono da terra e diventano la base da dove tanti pennacchi colorati si incurvano in una miriade di intrecci e colori, come un pavone che fiero fa la ruota. Gli stucchi formano raggiere che, senza soluzione di continuità arrivano fino al soffitto al massimo della loro ampiezza per poi ridiscendere e ricongiungersi nuovamente agli azulejos che proseguono fino al pavimento. Questa sala non è solo bellissima, è anche di ispirazione più indiana che moresca: è la mia preferita senza dubbio.
Ci passiamo più tempo del dovuto, alla ricerca della perfetta angolazione da cui poterla fotografare. In realtà non è così grande come appare nelle immagini, è la composizione stessa dei motivi che le dà un senso di profondità maggiore.
Purtroppo il tempo concesso per la visita non è sufficiente per perdermi come vorrei, perciò in volata percorro la Sala dei Piatti Spagnoli, dalla cupola decorata con piatti di ceramica smaltata, e la Sala degli Amanti, dalle pareti così adornate che sembrano di pizzo e con una frase impressa nella cornice di una finestra “Gli occulti incanti di un fantastico stile a me una fata disvelò benigna or dei pedanti la vite turba maligna”, posizionata proprio di fronte alla vetrata che probabilmente conteneva l'occhio divino.
La sala riporta anche i nomi di amanti celebri come Lancillotto e Ginevra, ma soprattutto rispecchia un momento della vita di Ferdinando ormai avanzata, da ex uomo politico lontano dai salotti fiorentini e disilluso anche nella vita privata.
Testimoniano questa fase alcune scritte “I gracchi (il popolo) mi fischia, io mi applaudo” che si contrappone molto alla frase che troviamo all'inizio del percorso, quella sull'uomo volgare e infame perché dimostra che, forse con l'avanzare dell'età, Ferdinando soffre di più l'incomprensione di cui è vittima. E' come se la speranza di essere accettato per quello che è fosse svanita col passare del tempo e l'avvicendarsi dell'esistenza stessa. Ribadisce ancora di più il concetto sull'altra parete, dove incide “ Ogni persona grande ha qualcosa di folle”...quante volte l'ho pensato anch'io...
Figuriamoci una personalità così poliedrica, ricca di interessi e colta come quella di un uomo che, in pieno Rinascimento, ha l'ardire di costruire un'opera così diversa. Ferdinando non è solo un uomo stravagante, è soprattutto una grande mente che esercita un fascino innegabile, spesso motivo di invidia. E lui lo sa bene tanto da scrivere “Va solingo il Lion pel suo sentiero, spiega romita al cel l'aquila in volo. Sia nobil tedio o volontà d'Impero, ogni Forte nel mondo è sempre solo”.
La visita si conclude nella Cappella, l'ultima tappa di questo percorso come della vita. Per capire questa stanza bisogna partire dal fatto che Ferdinando non era particolarmente credente, e nemmeno un estimatore del clero. Tra i colori più delicati rispetto a quelli delle altre sale, qui è la Fede la vera protagonista. Dietro l'altare in terra cotta - costituito da un unico blocco ottenuto dalla fornace del Castello che il Panciatichi aveva voluto per avere maggior controllo sulla realizzazione dei manufatti - vi è una scritta in caratteri gotici “Dio è Grande”, che richiama l'espressione islamica “Allah Akbar”. Sempre dietro all'altare, non sopra, è stata collocata una croce; mentre nel ciborio davanti un triangolo racchiude l'occhio divino che stavolta è chiaramente un simbolo della Massoneria perché in quel periodo era proibito utilizzarlo in contesti sacri.
Ma che cosa significano queste tre cose insieme? Certamente unità tra religioni diverse in nome di una Fede universale in Dio, qualsiasi nome, forma o colore abbia. Il rapporto tra Oriente e Occidente per Federico doveva svilupparsi come una grande opportunità per tutti, i pregiudizi spazzati via dalla voglia di vivere in pace senza dover per forza credere di essere custodi esclusivi della verità. Non dovevano essere le ricchezze a spingerci verso l'Oriente ma la sua cultura. Perché essere diversi non è un difetto e non deve far paura.
E' questo il messaggio che Federico Panciatichi Ximenes d'Aragona ha lasciato a “...voi c'avete gl'intelletti sani...”
Per la stesura di questo post mi è stato d'aiuto il libro "Ferdinando Panciatichi Ximenes d'Aragona, Sammezzano e il Sogno d'Oriente" a cura di Emanuele Masiello e Ethel Santacroce, edito da Sillabe. Consiglio a tutti di acquistarlo perché contiene tante notizie e approfondimenti, nonché gli atti del convegno che si è svolto nel 2013 in occasione del bicentenario della nascita di Ferdinando.
Mi preme ricordare inoltre che il Castello di Sammezzano è chiuso e di proprietà di una società italo-inglese; le rare visite organizzate a titolo volontario dal Comitato FPXA possono svolgersi solo previa autorizzazione della stessa.
Aggiornamento febbraio 2017: qualcosa pare si stia muovendo e intorno al Castello di Sammezzano adesso si è acceso un grande interesse nazionale infatti il Castello di Sammezzano ha vinto il censimento del FAI 2016 I Luoghi del Cuore con oltre 50.000 voti. Ci auguriamo che questo sia soltanto l'inizio di un serio lavoro di recupero e restauro di questo splendore, e che un giorno si possa visitare come un qualunque altro monumento patrimonio di tutti noi.
Aggiornamento marzo 2017: il Castello di Sammezzano è finito nuovamente all'asta che verrà battuta il 9 maggio p.v.
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